IL PRIMO E’ LA SCOPERTA DI CIO’ CHE CI RENDE SIMILI,
IL SECONDO E’ IL RISPETTO DI CIO’ CHE CI FA DIVERSI.”
-S.LITTLEWORD-
Raissa è una giovane infermiera che vive nelle splendide colline Umbre e lavora presso una casa di riposo. Il suo scopo nella vita è quello di portare ogni giorno un po' di gentilezza e luce agli ospiti anziani e soli che vivono nella "Fattoria Senile", con la speranza di colmare il suo grande vuoto lasciato per la mancanza d'affetto di sua madre. Incontrerà strani personaggi, come Poca Luce, Squalo, Campana e Bella Gioia, con i quali vivrà situazioni divertenti, surreali e di forte amicizia.
Acquistabile su Amazon: https://amzn.eu/d/jjS6AuU
ESTRATTO
Agganciai il telefono e risi quasi per l’assurdità che mi era appena stata raccontata. Lena però non era una persona burlona e quel pianto sembrava vero.
Ero in confusione, perché non era il primo di aprile, ma il diciotto settembre e poi, scherzi del genere non si fanno, giusto?
Misi di nuovo la mano sulla maniglia della stanza che nel frattempo si era richiusa e nell’aprirla udii una voce familiare, e queste parole: «Ti abbiamo legato il filo d’argento ai fianchi, adesso puoi venire con noi...
…SIGNORA AQUILONE.»
Spalancai la porta di colpo. Nella stanza non c’era più nessuno, solo mia madre, sdraiata con gli occhi chiusi e un gran sorriso.
Cercai in ogni dove la presenza di qualcuno che poco fa avevo visto, con il quale avevo parlato e ora era scomparso nel nulla.
Il macchinario del cardiofrequenzimetro cominciò a gridare, il monitor ero come spento, i numeri dei battiti erano spariti. Entrarono di corsa un numero indistinto di infermieri e medici, mi spostarono in fondo alla camera, mi chiesero di stare lontana e di attendere.
Che cosa stava accadendo? Cosa era successo? Dove erano finiti i quattro super-amici?
Cercai di fare mente locale per non pensare al significato di quel suono brutto, assordante, perché sapevo bene cosa mi stava dicendo, ma lo ignorai e cercai di riflettere.
Se i miei quattro avevano avuto l’incidente nel tardo pomeriggio ed erano morti quasi all’istante, come potevano essere qui poco fa?
Ora sono le venti o giù di lì. Oh cavolo! Oh cacchiarola!!
Respira, respira, non può essere!!
C’erano ma non c’erano, io li ho visti, gli ho parlato, mi hanno parlato. Non è possibile, non può essere vero!!
«Mamma, tu li hai visti poco fa? Qui insieme a noi, c’erano loro, Poca luce, Campana, Squalo e Bella gioia, ti sono venuti a trovare e...»
«Mi dispiace signora, ma vostra madre ci ha lasciati.»
«Cosa? È morta? Quando? No, M-A-M-M-A!!»
Mi aveva lasciato pochi istanti fa e io ero lì, insieme a lei e non me ne ero nemmeno accorta.
Mi gettai sul letto e l’abbracciai stringendola fortemente a me. Il suo corpo ancora caldo, mi faceva ancora sperare che da un momento all’altro avrebbe riaperto gli occhi. Ma non fu così.
La sua sofferenza era finalmente finita. Le parole della signora Molinari mi rimbombavano nella testa. Ti abbiamo legato il filo d’argento ai fianchi, adesso puoi venire con noi… SIGNORA AQUILONE.
Avevo sentito bene la sua voce tanto da riconoscerla, ero certa che fossero stati lì.
Finalmente, compresi.
Erano morti all’improvviso, strappati alla vita, senza rendersene conto e le loro anime erano volate fino a noi per prendere un ultimo angelo: mia madre DIANA.
Le 20:15. No un momento, il mio orologio da polso si era fermato. Erano esattamente le 20:35, almeno così indicava l’orologio da muro nella stanza. Non sapevo cosa fare. Dovevo forse avvertire qualcuno?
Le mie gambe erano di marmo, la testa vuota.
Una dottoressa che non avevo mai incontrato prima di allora, si avvicinò a me con una cartellina in mano.
Longilinea, sui cinquanta, alta e magra con capelli biondi un po’ mossi, mi prese le mani e mi fece le condoglianze senza chiedermi chi fossi.
«Sono molto dispiaciuta per lei. Sua madre è morta a causa di un arresto cardiaco, precisamente alle ore 20:15, senza alcuna apparente sofferenza.»
«Grazie, sì.»
Le 20:15, il mio orologio si era arrestato alla stessa ora in cui mia madre aveva lasciato questo mondo.
Il respiro soffocato nel pianto finalmente esplose quando la dottoressa mi abbracciò. Mi avvolse in un abbraccio familiare, materno.
Guardò i miei occhi pieni di lacrime e mi disse di nuovo: «Mi dispiace veramente tanto».
Non credevo di avere un aspetto tanto disperato a tal punto da farmi abbracciare da una sconosciuta. Forse lo ero, o magari avevo solo trovato una persona con un cuore compassionevole. La ringraziai fingendo un gran sorriso e m’incamminai verso la stanza senza vedere più nulla.
Commenti
Posta un commento